A collaborative course dedicated to the professional training of students from the Italian Licei (“Narrare i testi, illustrare i racconti, creare le immagini”, Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, PCTO https://pcto.uniroma1.it/progetto/88554) held at Sapienza University with Professor Francesco Camia was designed as an immersive journey in the Hellenistic period, throughout the stories and profiles of the itinerant professionals of the performative arts. The course, held between January and February 2023, hosted M.Z. Lafis and Bettina Joy de Guzman, two extraordinarily talented artists who worked through painting and music with the ideas of itinerancy and performative art embedded in the PTANOIS POSIN project (see the sections dedicated to their art, here: https://poetivaganti.chs.harvard.edu/call-for-inspiration/). Zoie and Bettina walked the students through their creative process and demonstrated how ideas can merge in brainstorming and evolve into representation of a project’s concept.
Carlotta Caruso of the Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano (https://museonazionaleromano.beniculturali.it, https://www.facebook.com/MNRomano/, https://www.instagram.com/museonazionaleromano/) also accepted our invitation and instructed the students in the narrative methods while building a story around an epigraphic text. Carlotta offered a very fascinating promenade throughout the collections of MNR other than a behind-the-scenes look at the setting-up of exhibitions: selecting the right pieces of a collection, creating captions, matching the space with the whole arrangement are all features of an expertise whose goal consists in reducing the distance between the ancient and present times. Broadcasting inscriptions through social media is a new frontier of dissemination as stories can create engagement while spreading culture and acknowledgement of ancient history. Carlotta’s upfront project of disseminating the MNR epigraphic collection through narration (look at the FB Saturday appointment with “Stories from MNR” curated by her and at her book “101 Storie Svelate”) was a significant inspiration for Licei students attending the Sapienza PCTO who approached epigraphy and ancient Greek culture by means of storytelling.
The popular side of the Hellenistic culture can be told through the stories of its protagonists whose inscriptions disclose one or some pieces of their lives. Many tesserae compose the big picture and fancy stories can amuse us while we define our vision. This does not mean we lose our focus in the twists and turns of narration: on the contrary, despite the infinite stories we can create on a poeta vagante, we stand by significant elements meant to build an overall perspective.
In the following stories created by our students (in Italian, English, and Spanish) we picked some protagonists of the Hellenistic performative life whose career and life as told by the inscription could be particularly stimulating and appropriate for producing a story. For the reason explained above, in two particular cases we all experimented the storytelling on the same inscriptions.
“La storia è un moltiplicatore di eventi, una collezione di precedenti, studiarla significa avere una carta in più per capire cosa succede, non essere più al buio.” -A. Barbero
The many stories of Phorystas, the herald with winged feet
https://poetivaganti.chs.harvard.edu/inscription/ig-vii-530/
Phorystas and Hermes – Alessandro Zanni (VC Liceo Linguistico “Aristofane”)
Phorystas, beloved by many, herald with the strongest of the lungs, lived a life filled with success and glory.
He was extremely confident and held himself in high regard, yet he did not enjoy challenging people with no skills nor did he enjoy participating in most contests. Succeeding without any efforts was a good way of make a living, though.
After winning countless awards and prizes, he could not bear his agonistic life: he was undefeated and no one dared to challenge him anymore.
This was until one particular day in Olympia. The city was restless as the messenger of the Gods and strongest runner ever known was about to arrive.
“Finally! A worthy opponent!” thought Phorystas. He wasted no time and immediately set out to challenge Hermes. No. What a fool he was! Challenging a god, a mere human?
Hermes couldn’t believe his ears and eyes. He was enraged by such arrogance, yet he could not back down from the provocation.
All of the townspeople could not wait for the contest but the excitement quickly turned into shock, when Phorystas outran the furious god.
Hermes was desperate and Phorystas was even more proud. The joy of the latter did not last long, though: Hermes, enraged by Phorystas’ victory, decided to punish him by stealing his lungs.
Till this day it is said that Phorystas’ lungs are preserved somewhere far, in one of the shrines of Hermes, as a sign of the god’s power and honor, which should never be trampled on.
La fuga de Phorystas – Diego Proietti (VC Liceo Linguistico “Aristofane”)
Phorystas pensaba que era un hombre. Fue tan aclamado por la multitud que su ego se disparó. Se sintió un héroe y el mayor heraldo y corredor de Grecia. Por eso, cuando un día en su ciudad se desató un gran incendio y los ciudadanos se asustaron, tuvo la idea de apagarlo con sus enormes pulmones. Inmediatamente corrió al lugar y comenzó a soplar con todas sus fuerzas. Sin embargo, Phorystas se dio cuenta enseguida de que no podía apagar el fuego y por ello todos murieron frente a sus ojos, por lo que decidió huir y refugiarse en su pueblo natal. Un día al despertar y salir a comprar algo de comida para ahorrar, se dio cuenta de que la noticia de lo acontecido en su ciudad se había extendido. Fue perseguido por los ciudadanos, quienes le dijeron que la única forma de resolver el problema era sacrificarse a los dioses. Phorystas decidió enfrentarse a su destino, pero el día de su sacrificio se desató una tormenta tan poderosa que hizo temblar las murallas de la ciudad. Dicha tormenta duró varios días por lo que el rito no pudo completarse y. Los ciudadanos entendieron que se trataba de un mensaje de los dioses. De hecho, creían que Phorystas poseía grandes habilidades y, a pesar de haber huido, era un hombre de gran corazón. Por ello, Phorystas fue liberado, y los ciudadanos, arrepentidos por el gesto, lo perdonaron. Así fue como comenzó a recuperar su honor perdido.
Ptanois Posin – Susanna Martinelli (IIIA Liceo Classico “Aristofane”)
“Mamma sbrigati, faremo tardi!”
La donna sorrise all’entusiasmo del figlio e accelerò il passo. “Non ti allontanare troppo”.
Era una bella giornata. “Perfetto” pensò la madre. Il sole splendeva, soffiava quella brezza che fa ondeggiare le tuniche e sussurra il canto delle sirene. “Perfetto” pensò il bambino e si mise a canticchiare seguendo la melodia del vento.
Era il giorno dell’agone di Zeus. “È il giorno mamma, è il giorno!”
La folla si affrettava verso gli spalti. Poi accadde. Uscì allo scoperto un uomo: l’araldo. Respirò a fondo e iniziò a parlare. I giochi erano aperti. Passarono i minuti e l’uomo continuava a declamare con voce forte e chiara, senza mai prendere fiato. Il bambino era incantato. La folla sparì ai suoi occhi e rimasero solo loro, un bambino e un araldo, immobili. La voce dell’uomo gli rimbombava nelle orecchie: l’araldo divenne musa e il bambino poeta. Poi, così come era cominciato, l’incantesimo finì e la folla riapparve. Gli applausi si fecero sempre più fragorosi e l’uomo sparì. Il bambino era infatuato di quel mondo e quasi gridò quando vide lo stesso uomo ricomparire per gareggiare tra gli atleti. Era lì per correre. E, nell’istante in cui gli agonisti scattarono in avanti, il bambino le vide, le ali. Vide i piedi alati dell’uomo e in quel momento seppe chi avrebbe vinto. “Mamma…” sussurrò. La donna si girò”. “Mamma, io da grande sarò così. Avrò i suoi polmoni e i suoi piedi alati e sarò il vento”. La madre sorrise, dolce.
“Certo Phorystas, sarà così”.
L’agone di Phorystas – Aurora Carlaccini (IID Liceo Classico “Aristofane”)
Phorystas correva, correva e sembrava poter continuare all’infinito. Correva con la stessa leggerezza di una danzatrice. Correva come se Ermes stesso gli avesse donato un paio d’ali. Sembrava accarezzare delicatamente il terreno, ma lasciava impressa la sua orma come se avesse la stessa pressione delle profondità abissali che ospitano sconosciute creature marine. Il fiato si faceva corto, non per la fatica (possedeva la resistenza di un ghepardo), ma per la gioia. Riusciva ormai a sbirciare con gli occhi la linea del traguardo. Era questione di secondi. Poco dopo, le gambe affaticate smettevano di agitarsi. Il respiro non era più affannato. Aveva vinto.
L’atleta era sempre stato promettente, sin dalla prima giovinezza. Gli amorevoli genitori erano soliti narrare al fanciullo racconti che ritraevano le straordinarie imprese degli dei, ma il giovinetto Phorystas chiedeva di addormentarsi sempre con la stessa storia: quella delle avventure di Ermes. Phorystas cresceva e, nel corso degli anni, non vi era stato uno solo tra i Greci che non avesse ammirato l’agilità del ragazzo rimanendone stupito: “Phorystas, per Zeus, sembri avere la forza di Ercole nelle gambe” – gli dicevano i compagni. “Tuo padre è stato benedetto con un figlio tanto dotato, sicuramente è un uomo devoto” – commentavano gli anziani al mercato dell’agora. Phorystas rispondeva sempre con parole delicate, pronunciate con voce soave, come se il giovane avesse assaporato un’infusione dell’armoniosa Euterpe: la voce degna di un araldo.
Le parole di lode a lui rivolte per la corsa spronavano il giovane a coltivare quel talento che appariva divino. Ogni pomeriggio era dedicato alla corsa. Il sole si rifletteva sulla carnagione olivastra dell’atleta donando a quest’ultimo un’aura che, nonostante la sua delicatezza, si imponeva agli ammiratori con la stessa intensità di una saetta scagliata da Zeus o dalle pietruzze infiammate derivanti dal faticoso lavoro di Efesto. Le calzature erano ormai consumate e gli arti inferiori pulsavano seguendo il ritmo del cuore. Il giovane sembrava invincibile. Tuttavia il suo talento era grande quanto la sua ambizione. Aveva già preso parte in precedenza a diverse competizioni organizzate con i compagni di corsa al ginnasio, ma mai aveva avuto la possibilità di partecipare ad un agone cittadino: il rigido padre Triax temeva per l’incolumità del proprio figlio. Essere estremamente talentuosi implica spesso ricevere invidia e subire dei torti, tanto da parte degli atleti rivali quanto degli dei. Forte infatti era il rischio che, prevaricando un protetto, si scatenasse sul giovane e su tutta la sua stirpe l’ira delle divinità. Per questa ragione, i genitori del ragazzo avevano cercato di allontanarlo dal mondo degli agoni. Nonostante ciò, poiché l’ambizione aumentava con la sua velocità, l’atleta decise di presentarsi nella veste di araldo al fine di avvicinarsi alla competizione. Il gonfio petto permetteva al giovane di recitare facilmente lunghi discorsi senza interrompere il corso delle parole per nutrire i polmoni. Solo successivamente presentò il proprio nome di atleta per l’agone che si sarebbe svolto trenta giorni dopo in onore di Zeus. Fu un tempo infinito che però mai sembrava sufficiente. Phorystas iniziò ad allenarsi durante il giorno, cullato dai tiepidi raggi di Elio, e anche la notte, accompagnato dalla luce delicata di Selene. Il pensiero dell’agone lo tormentava. Se c’era qualcosa che avrebbe potuto colmare l’animo del giovane scavato dall’ambizione, era la vittoria.
Finalmente giunse il giorno dell’agone e il giovane era dominato dallo stesso fremito che pervadeva Cerere durante la ricerca dell’amata figlia Proserpina. Phorystas rivolse lo sguardo per un attimo interminabile verso il pubblico che lo circondava e le iridi scure come la notte si posarono su una figura che riconobbe immediatamente. Tra gli spettatori si trovava il padre Triax. L’uomo, il cui corpo era avvolto da una soffice toga bianca, osservava attentamente lo stadio in cui si sarebbe svolta la competizione, finché il suo sguardo non fu catturato da una figura slanciata che si distingueva per la riccia chioma bruna: era Phorystas! Il cuore del padre fu improvvisamente inondato da timore, ma interrompere la competizione era un’impresa che avrebbe fatto precipitare sulla famiglia enorme vergogna. Chiuse gli occhi e aspettò l’annuncio che avrebbe dato inizio alla corsa. Improvvisamente un nuovo timore iniziò ad abitare l’anima dell’atleta: non voleva deludere il proprio padre. Nonostante l’animo agitato, scosse il capo per allontanare le asfissianti preoccupazioni e chiuse gli occhi attendendo l’annuncio di inizio corsa.
Improvvisamente appariva la visione del terreno sottostante: scorreva come il filo sul telaio. Attorno a lui, silenzio, non un grido di esaltazione, non un sospiro. Gli ultimi passi prima del traguardo erano accompagnati da un canto armonioso, le grida di esultanza del pubblico che riempivano l’animo di Phorystas. Il timore che aveva pervaso il cuore di Triax era stato sostituito da una gioia che gli aveva colmato il petto. Phorystas aveva vinto.
Ansia da performance – Ludovica Allevato (IID Liceo Classico “Aristofane”)
Era l’adrenalina a fargli tremare le gambe. La sentiva pulsare nelle membra come la più bella delle melodie mai prodotte con l’aulos. Credeva di essere un soldato alla vigilia di una battaglia, l’incertezza della vittoria gli gravava sulle spalle e la speranza che gli dei fossero dalla sua parte si innervava in lui. I cori urlanti degli spettatori non aiutavano il suo cuore martellante. Le punte delle dita erano pervase da piccole formichine laboriose e la voce dei giudici indicava il tempo rimanente alla partenza.
“Per prepararti a questo agone ti sei allenato come fece Achille, il tuo insegnante fu al pari del famosissimo Chirone, hai già la vittoria in tasca” – il suo amico lo rassicurava come si fa con i giovani pupilli pronti a svolgere un discorso in pubblico e, di questo, Phorystas gli era infinitamente grato. “Arriverò alla fine con la corona sul capo, caro amico”.
Non appena mosse i primi passi nel campo, ebbe la possibilità di immedesimarsi negli umili rapsodi, i quali perdevano contatto con la realtà pervasi dalle muse ispiratrici, che al fine di alleviare la loro anima non osservavano più con gli occhi del viso ma con quelli della mente. Aveva l’impressione che l’illustrissimo messaggero Ermes gli avesse donato i calzari con le ali svolazzanti in balia del vento, e i suoi piedi non percepivano il suolo, correndo sull’aria leggera. Ermes gli afferrava la mano, eliminando qualsiasi limite imposto dalle sue mortali possibilità e, con la stessa veemenza che si prova quando si è pervasi dalla passione tipica di un amante alle prime armi, lo riempiva di divino. La sua umanità era stata rubata da piccoli satiri. Il sole, diligentemente trasportato dal carro di Apollo, gli bruciava la pelle e Phorystas la immaginava carbonizzata come quella del povero Icaro, tanto vicino alla stella più lucente quanto era lui alla gloria. Si guardava intorno, ma non vedeva altri che il suo percorso e gli altri corridori alle calcagna. Attraversata la soglia dell’arrivo, gli parve di aver fatto ingresso alle maestose porte dell’Olimpo, ancora impregnato del profumo del sacrificio appena svolto per l’inizio degli agoni.
Il nome di Phorystas era ripetuto all’infinito, come fosse lui stesso l’oracolo di Delfi, mentre il ricco premio era adagiato nelle sue mani, simile a un bambino nelle braccia materne.
Si sentì d’un tratto vuoto, una marionetta abbandonata dal burattinaio. Il suo corpo era segnato dalla stanchezza, le forze stremate, mentre la sua umanità ritornava nei meandri della sua carne in una scossa dirompente che gli fece perdere l’equilibrio. Ancora sbigottito dal respiro che non sembrava voler tornare alla gola, veniva acclamato dagli spettatori che erano stati perforati dalle frecce appuntite del pargolo di Venere, completamente catturati dalla sua figura imponente, circondata ormai dalla luce della fama. Raggiunto il suo caro amico, si scambiarono un gesto ricco di affetto, che per il ragazzo valeva molto più del premio ingente.
“Phorystas, questa volta hai vinto nella corsa ma in realtà sei nato per fare l’araldo! Hai dei polmoni che farebbero invidia ai suonatori di flauto!” La frase celava un silenzioso scherzo tra i due, in quanto tutti sapevano quanto gli araldi fossero ferrati anche nella corsa, dovendo enunciare lunghi discorsi tutti d’un fiato. Si avviò fuori dal campo, con la schiena dritta e la testa alta, simboli della gloria ottenuta. E sembrava che avesse vinto la guerra di Troia, un soldato armato che tornava dalla sua amata, senza curarsi delle ferite che portava sul corpo, tanto era estasiato dal successo.
Corri Phorystas – Flavia Palo (IB Liceo Classico “Lucio Anneo Seneca”)
Phorystas era un eccellente araldo, tra i più noti: servendosi del suo grande fiato, riusciva sempre ad aprire e chiudere ogni festival in modo esemplare. Era celebre a tutti come vincitore del bell’agone di Zeus ma nessuno, in verità, era a conoscenza dell’origine della passione che gli procurava tanta resistenza.
Da sempre, Phorystas, correva.
Nato e cresciuto in un piccolo villaggio della Beozia centrale, già da piccolo aveva imparato il significato della parola “povertà”. Era il secondo di sei fratelli e il padre Triax, per quanto si sforzasse di lavorare dalla mattina alla sera in quel piccolo appezzamento di terra, spesso non riusciva a sostenere una situazione ormai critica. Persistevano lunghi periodi di magra, e saltare la cena era diventata ormai una costante.
Una volta raggiunta la maggiore età, Phorystas cominciò a lavorare nel campo. Fu proprio lì, in quel luogo dove faticava ininterrottamente tutto il giorno, che riuscì a stabilire un rapporto tanto profondo con il padre e di ciò era felice e grato. I due erano soliti correre insieme dopo una giornata di lavoro e Phorystas era lieto di sfogare la pesantezza della sua vita insieme al padre. Sempre. Insieme. Ad ogni corsa, l’amore tra i due si consolidava.
Accadde, però, come un fulmine a ciel sereno, che Triax morì stremato dai lunghi anni di duro lavoro e così tutto il mondo di Phorystas cadde: aveva perso l’unica persona con cui condivideva la passione per la corsa. Trascorsero mesi difficili: niente più padre, una madre distrutta e una famiglia da mandare avanti. Ma il nostro ancora piccolo araldo una cosa non smise mai di fare: sapete cosa? Correre. Correva tutti i giorni, in onore e ricordo del padre e, quando il dolore lo soffocava, correva ancora più forte. Senza smettere mai, muoveva veloce quei piedi verso un mondo sì immaginario, ma certamente migliore. Gli sembrava quasi di volare e si sentiva come se i piedi non toccassero terra ma fossero dotati di ali. Furono proprio quei piedi alati che gli permisero di raggiungere una vita migliore, da araldo quale divenne. Piedi forgiati nel dolore di una grandissima perdita, polmoni forti in grado di sostenere la voce più squillante tra tutte agli agoni. Phorystas era riuscito a trasformare il dolore in una salvezza.
Da sempre, Phorystas, correva. In memoria del padre.
Pubblico appassionato -Virginia Funari (IA Liceo Classico “Lucio Anneo Seneca”)
Oggi Phorystas è stato proclamato vincitore del bell’agone di Zeus ad Olimpia. Ho assistito a tutta la gara e anche all’assegnazione finale del kotinos, la ghirlanda di olivo selvatico dell’albero sacro che si dona ai vincitori come premio. Mi trovavo in mezzo alla folla. Purtroppo non sono molto alto perciò non vedevo quasi nulla; così, appena ho udito l’inizio del dromos, ho tentato di farmi spazio nella calca.
La gara di corsa è l’agone che preferisco. Giungo in prima fila e subito la mia attenzione si sofferma sull’atleta in testa: così possente, le gambe slanciate e i piedi che sembrava non toccassero terra. La carnagione chiara brillava sotto i raggi del sole cocente e i riccioli castano scuro si perdevano nel vento per la gran velocità. Mi accorgo che si trattava dell’araldo che la stessa mattina aveva dato inizio al festival senza mai prendere fiato. Già in quel momento aveva dato dimostrazione dei suoi polmoni gloriosi: la sua eccellenza nella corsa era già intuibile.
Avevo presagito la sua vittoria e, di certo, come me anche molti altri spettatori. Si distingue, Phorystas. Nessuno lo raggiunge, neanche da lontano. Continuo a osservarlo e cerco di concentrarmi sui suoi movimenti nel modo più dettagliato possibile. Ultimamente sto provando ad allenarmi al meglio per potermi trovare anche io, un giorno, al posto di Phorystas, araldo che viene incoronato e onorato dai Greci tutti.
Vita da araldo – Lavinia Marri (IA Liceo Classico “Lucio Anneo Seneca”)
Strano, è vero, ma quando ero piccolo non trovavo particolare interesse nell’assistere agli agoni. Non riuscivo a comprendere il motivo che spingeva una così gran moltitudine di persone a parteciparvi. Io però ero sempre presente, mio padre mi portava con sé ogni volta che se ne presentava l’occasione. Lui sì che era un vero appassionato. Da giovane infatti aveva vinto numerosi agoni ed era famoso al punto tale che il suo nome echeggiava anche nelle colonie lontane, al di là del mare. Con il passare degli anni compresi l’importanza e la bellezza degli agoni, così chiesi a mio padre Triax di diventare il mio maestro. Allenò la mia voce e la mia resistenza con un regime severo, in modo che io potessi diventare il migliore degli araldi del mio tempo. Dopo anni di fatica e duro lavoro, per la prima volta partecipai e, con piedi alati, come se il dio Ermes mi avesse voluto offrire in dono i suoi calzari, vinsi il bell’agone di Zeus e molti altri dopo quello. L’emozione per la vittoria del primo agone è unica e indescrivibile: finita la mia esibizione, sentii il calore della folla che mi applaudiva, tutti si alzarono in piedi per dimostrare la propria ammirazione nei miei confronti. Io avevo raggiunto il mio obiettivo grazie all’incessante sostegno di mio padre che, anche se non aveva potuto assistervi, sarebbe stato orgoglioso di me.
Non so dirvi se e fino a quando il mio nome rimase nella memoria dei posteri, ma posso affermare con sicurezza che al mio tempo fui lodato e onorato.
Fratelli araldi – Ambra Grandizio (IA Liceo Classico “Lucio Anneo Seneca”)
In un piccolo villaggio della Grecia vivevano due giovincelli molto innamorati. Da questo amore, fresco e spensierato, nacquero due gemelli: Phorystas e Achilleus. Fin dall’infanzia, erano molto legati e il loro rapporto era indissolubile. La loro madre era un’atleta esperta e custodiva un sogno: correre fino a spiccare il volo. Un’utopia. Alla sua morte, i gemelli decisero di riunirsi tutte le sere per andare a correre in onore della madre.
Gli anni passarono e i due fratelli si resero conto di condividere la passione per gli agoni, così entrambi iniziarono a partecipare a diverse competizioni. Phorystas decise di gareggiare all’agone di Zeus di Olimpia. Tutti coloro che lo videro rimasero sbalorditi, ammirandone la feroce determinazione e la forza, sprigionata da quelle gambe apparentemente gracili. Da subito il pubblico lo soprannominò “il giovane dai piedi alati”, poiché trasmetteva quel senso di leggerezza e di spensieratezza che non era comune vedere negli altri partecipanti. Inizialmente non diede peso ai giudizi, perché la sua ambizione era quella di realizzare il sogno della madre. La passione della corsa aiutò Phorystas anche nel mestiere di araldo, che pure svolgeva con successo. Achilleus, però, non riusciva ad accettare che il fratello fosse più celebre di lui e così il rapporto tra i due si incrinò. Dopo anni, i gemelli si rincontrarono per partecipare allo stesso agone e per la prima volta Achilleus riuscì a battere Phorystas il quale, nonostante la sconfitta, fu finalmente felice di aver ritrovato l’affetto di suo fratello.
Intraprendenza di un padre – Nicole Angelini (IA Liceo Classico “Lucio Anneo Seneca”)
Non faccio altro che tentare di convincere mio figlio, quel testardo di Phorystas, che lui è un vero e proprio talento. Tutti gli anni a Delfi vengono celebrati degli agoni e cerco sempre in tutti modi di spingere il mio ragazzo a parteciparvi, ma niente. Non fa altro che rifiutare, però quest’anno non sarà lui ad averla vinta, ci si può scommettere! Ho trovato un modo per convincerlo o meglio per impedirgli di rifiutare: cosa farò? Semplice, andrò lì e lo iscriverò io stesso e, una volta che la celebrazione avrà avuto inizio, non potrà più tirarsi indietro. Questo è proprio un ottimo piano, ora non resta che metterlo in atto!
Così ho fatto: sono partito da Tanagra, approfittando della mia attività di commercio, ho preso i sacchi di grano e mi sono incamminato verso la mia meta. Ho impiegato diversi giorni, ma sono riuscito ad arrivare in tempo per commissionare il grano e soprattutto per iscrivere mio figlio nella lista dei partecipanti. Una volta realizzato il mio -devo dire alquanto subdolo- piano, decisi di restare lì e farmi raggiungere il giorno successivo. Phorystas nel frattempo non sospettava nulla e questa cosa mi faceva sentire un eroe, insomma ammettiamolo, chi non vorrebbe un padre come me? Orgoglioso di me stesso, sono andato a dormire. La mattina seguente era il giorno della celebrazione degli agoni, mio figlio si presentò lì e indovinate un po’? Vide sulla lista proprio il suo nome, ovviamente vi assicuro che non fece una bella faccia, ma ormai non c’era tempo per adirarsi con me poiché la celebrazione stava per avere inizio. Mio figlio iniziò partecipando alla prima prova che consisteva nella gara araldica. Non appena iniziò, dalla sua bocca uscì una voce ipnotica. Tutto il pubblico rimase stupito da quel suono che non aveva mai una fine, era come se a lui non servisse respirare… Era meraviglioso! Alla proclamazione del vincitore provate ad immaginare chi fu a vincere? Già, proprio lui, mio figlio! Io ero estremamente fiero e lui invece era piuttosto incredulo: vinse il bell’agone di Zeus, e, proprio come me, anche tutta patria felice fu entusiasta e sbalordita di aver dato i natali a questo nuovo talento.
Da quel giorno mio figlio non smise di partecipare agli agoni, tant’è che con la sua interminabile resistenza provò a partecipare a una competizione di corsa e anche lì fu proclamato vincitore. D’altronde un magnifico araldo, con un fiato così potente, come poteva non risaltare anche nella corsa? Mio figlio iniziò a competere a tutti gli altri agoni, vincendo a piedi alati proprio come fece con quello di Zeus.
The many stories of Satyros of Samos, an aulos and kithara player skilled in singing: cooperative writing
https://poetivaganti.chs.harvard.edu/inscription/fd-iii-3-128/
https://poetivaganti.chs.harvard.edu/inscription/ig-xi-4-1079/
La cetra di Satyros – Susanna Martinelli, Virginia Funari, Diego Proietti
Mancano pochi minuti all’esibizione; sento la gamba destra che comincia a tremare. Ansia. Di nuovo. Guardo le mani e mi rendo conto che le dita non riescono a stare ferme: “Non adesso”. Questa non ci voleva. Devo calmarmi. Chiudo gli occhi e sento solo il legno caldo dell’aulos tra le mani. I miei polpastrelli cercano istintivamente l’iniziale incisa da mia sorella quando avevo solo dieci anni. È lì, nascosta in modo tale che solo chi suona possa vederla. È il nostro piccolo segreto. Improvvisamente sento mancare il pavimento sotto i piedi e comincio a cadere. È una caduta dolce, leggera. Mi sento fluttuare come una piuma, poi mi vedo. Un bambino che gioca con la sorella; rido, suono, vivo. Lei mi ha insegnato a gestire l’aulos e a cantare come solo gli uccelli sanno fare. Mi ha trasmesso il talento, la passione, l’amore per la musica e io mi sono infatuato di questo mondo di armonie perfette e impossibili.
Poi siamo cresciuti.
Siamo cresciuti e lei adesso appartiene a un uomo che le impedisce di condividere il suo genio. È prigioniera in una casa, incatenata a dei figli che non voleva. Schiava. Lei, che una volta splendeva così tanto.
Devo farlo per lei. Apro gli occhi. Per lei. Mi incammino verso la luce, il nostro aulos stretto tra le mani. Sento gli applausi fragorosi. Inizio a suonare. Per lei.
Satyros kithara – translation into English by Diego Proietti
The performance is just a few minutes away. I feel my right leg shaking. Anxiety. Again. I look at my hands and realize that my fingers cannot stay still: ” Not now”. I did not see this coming. I need to calm down. I close my eyes and I can only feel the wooden warmth of the aulos in my hands. My fingertips instinctively seek out the initial my sister engraved when I was only ten. It is there, hidden: only the player can see it. It is our little secret. Suddenly I feel the floor slipping under my feet and I start to fall. It is a soft, light fall, I feel myself floating like a feather, then I see myself. A boy playing with his sister: I laugh, I play, I live. She taught me to master the aulos and to sing as birds can. She passed me down her talent, she infused me the passion and the love for music and I fell in love with this world of perfect and impossible harmonies.
Then we grew up.
We are grown-ups and she now belongs to a man who prevents her from sharing her genius. She is a prisoner in her house, chained to children she did not want. She is now a slave, a woman who used to shine so bright. I need to do this for her. I open my eyes. For her I walk towards the light, our aulos clasped in my hands. I hear a thunderous applause. I start playing. For her.
La luce di Satyros – Ludovica Allevato, Alessandro Zanni
Il sole era alto nel cielo, il caldo corrodeva la pelle, ma l’aria di festa riempiva i cuori dei presenti come muse ispiratrici, tanto da rendere i corpi quasi anestetizzati.
Gli atleti si avviarono fuori dal campo, chi con la testa bassa, sintomo di sconfitta, che portavano sulle spalle la vergogna, chi invece aumentava il passo trionfalmente, con occhi ricchi di gloria, come le loro mani lo erano di doni.
In un angolo del luogo, circondato da un gruppo di giovani e anziani, si stagliava la figura di un uomo che con voce estremamente suadente, dondolando le membra per mettere in risalto la toga pregiata, era intento a vantarsi dei suoi meriti.
“Finalmente le mie esemplari capacità sono state premiate. Come può un prodigio come me meritarsi il vile trattamento di non aver alcuno sfidante all’agone? Sono davvero stato l’unico tanto coraggioso da iscrivermi alla gara del pythikos nomos per quest’edizione?”
Il tono era autocelebrativo, come se stesse narrando le coraggiose gesta di una guerra da lui intrapresa, che aveva messo in pericolo la sua vita. E chi riusciva ad ascoltarlo si sentiva quasi onorato grazie alle sue avanzate doti da oratore.
“Fin da quando ero piccolo, mi è sempre stato riconosciuto un talento naturale. Conservo addirittura lo strumento donatomi da Apollo alla nascita, quasi mi cruccio per il fatto che nessuno eguagli le mie capacità. Non ho alcuna sfida da affrontare.”
Si poneva su un piedistallo rispetto agli altri, alcuni dei quali iniziavano ad essere quasi increduli udendo quelle affermazioni. Era pericoloso eguagliarsi agli dei, rischiando di essere accusato di hybris, ma l’autostima di Satyros era tale da non temere conseguenze divine, e si riferiva alla divinità protettrice delle arti come se stesse parlando di un amico di vecchia data.
“Non pensi di star esagerando? Non sei mica il Caro Socrate, che vive su una nuvola a contemplare il cielo. Inoltre, sarebbe empio ammettere che tu sia tanto bravo da eguagliare Apollo.”
La discussione, prima che Satyros potesse rispondere con il suo solito fare egoistico e infido, venne interrotta a causa dell’arrivo di un ragazzo, quasi spaventato dallo scambio acceso di battute tra i due. Gli sembrava di trovarsi di fronte a uno scontro tra titani, pronto a scoppiare in una guerra cosmica. Informò Satyros che, poiché era stato scelto per esibirsi durante il sacrificio, avrebbe dovuto dar prova di sé con la cetra oltre che con la voce, in una doppia performance da solista e con il coro. Ed era come se, per un piccolo istante, quel piedistallo fosse diventato una trappola mortale. Sembrava che, come Patroclo nell’Iliade, lui stesso si fosse posto in una posizione più alta rispetto alle sue capacità. Tuttavia il suo orgoglio non si fece scalfire, rimanendo ancorato come la nave al porto nonostante la tempesta.
Avviandosi nel luogo stabilito, ripercorse le lezioni di canto che suo padre, profondamente amante della musica, lo aveva obbligato a svolgere con insegnanti privati provenienti dalle migliori scuole.
Si era sempre lamentato della sua voce, scegliendo invece l’aulos come suo compagno di vita, era parte della sua persona come la scaltrezza per Ulisse, le pozioni magiche per la maga Circe e la disumana forza per Eracle. Ed entrò in una trance, facendo uscire quella melodia tanto dolce da poterla fieramente paragonare al canto delle sirene. L’odore acre del sacrificio in corso gli riempiva le narici. Si sentiva come la Pizia, inondata dall’euforia quasi delirante. Occhi offuscati dalla presenza del divino e mente ubriaca di zolfo. Era il suo momento di ricongiunzione col pubblico, poteva percepire il silenzio religioso dei presenti, la sottile acclamazione gli scorreva nelle vene e aumentava la fiducia che riponeva nella sua rappresentazione. Aveva ottenuto ciò di cui era stato privato nell’agone precedente, nel quale non era riuscito ad immedesimarsi nella sua essenza artistica, e pensava di non aver ottenuto un riconoscimento degno della sua bravura, tanto ingente da renderlo addirittura parte di una corporazione degli artisti di Dioniso.
Tuttavia, in quei pochi attimi di gloria sentiva il padre Eumenes che, come se gli fosse permessa l’uscita dagli inferi di Ade solo per assistere a quello spettacolo, con voce commossa gli ripeteva all’infinito quanto fosse fiero di lui. Forse era finalmente arrivato all’idea platonica del bene, aveva toccato la perfezione e la stava condividendo con gli altri comuni mortali, nemmeno degni delle sue parole. Era uscito dalla caverna delle illusioni, aveva avuto la prontezza di contemplare il sole sostenendo il bruciore delle sue orbite, e ritornare al buio non gli sembrava qualcosa che si meritasse un uomo tanto illustre come lui.
Lentamente il coro smise di cantare e le sue corde vocali parvero spegnersi sotto il comando degli strumenti. Il sacrificio era compiuto, la sua fama aveva ormai sfiorato le altezze e il suo nome sarebbe rimasto sulla bocca di tutti fino alla sua morte, così da sfamare la sua instancabile fame di celebrità e ricchezza. Sarebbe tornato a casa con una storia da raccontare.
Satyros’ light – translation into English by Alessandro Zanni
The sun was shining bright in the sky. The heat warmed the skin but a festive mood filled the hearts of people like the inspiring Muses, so much so as to anesthetize the bodies of the participants.
The athletes walked off the field set for the contest: some of them with their head lowered, a sign of defeat, the disgrace weighing on their backs; some with a fast pace of triumph, eyes full of glory, and hands of bounties.
In a corner, surrounded by a group of young guys and elderly people, stood a man. Talking with an extremely persuasive voice, swinging the limbs to emphasize the precious toga, he was busy boasting his achievements.
“Finally, my excellent skills can be rewarded as I deserve. How could a prodigy like me deserve such a vile treatment: competing with no opponents at the agon! Was I really the only one brave enough to sign up for the pythikos nomoscontest this year?
His tone was of self-praise, like he was blowing his own horn on the courageous deeds of a war in which he alone risked his life. And those who assisted felt almost honored: those great speech skills did the trick!
“Since I was a child, I was always considered enormously talented. I still keep the instrument given to me by Apollo himself at my birth. I almost feel bad for the fact that no one can keep up with my skills. I have no challenge to fight!”
He placed himself on a pedestal, higher than the others, some of which, hearing such affirmations, started to feel almost stunned. It was indeed quite dangerous to compare himself to the gods, he risked to be accused of hybris, but Satyros’ self-esteem was so high as not to fear divine consequences, naming the god protector of the arts as if he was referring to an old friend of his.
“Don’t you think you are getting a little over your head? You aren’t the Dear Socrates, who lives on a cloud while contemplating the sky… And it would be wicked to declare yourself as great as the god Apollo.”
The discussion, before Satyros could reply with his usual egoistic and vile manner, was interrupted by a young man coming in a rush, almost scared by the heated exchange of the two. It seemed to him like he found himself in the middle of a clash of titans, about to explode into a cosmic war.
The young man informed them that, since Satyros was chosen to perform at the sacrifice, he was meant to play the kithara and sing, in a double performance a solo and with the chorus. It was almost as if, for a little moment, that pedestal of his became a deadly trap. Like Patroclus in the Iliad, he had put himself in a higher position than his actual capabilities.
Nonetheless, his pride did not fade, like a ship anchored at the port despite the tempest.
While reaching the appointed place, he started to recall the singing classes that his father, deeply keen on music, forced him to take with private teachers from the best schools.
He always complained about his voice, choosing instead the aulos as his companion, just like the cunning was for Ulysses, the magical potions for the sorceress Circe and the superhuman strength for Hercules. He thus entered a trance, releasing such a sweet melody that he could proudly compare to the song of the sirens. The acrid smell of the sacrifice filled his nose. He felt like the Pythia, drowning in an almost delirious euphoria. His eyes were clouded by the presence of the divine and his mind was drunk on sulfur.
It was his moment of reunion with the public, he could feel the religious silence of the audience, the cheering made his veins pump and increased the confidence he put in his performance. He then obtained what he could not in the agon, where he was denied to demonstrate his artistic essence and to get a worthy recognition for his skills, so excellent as to let him in a Dionysiac artistic association.
Still, in those few moments of glory, he heard the severe voice of his father: as if he was allowed out of Hades just to watch that sacrifice, an emotional Eumenes kept repeating how proud he was of his child. Perhaps he finally had reached the platonic idea of the Good, he had touched the perfection and was sharing it with the others, mere mortals perhaps not even worthy of his art. He had out of the cavern of the illusions and contemplated the sun while withstanding the sting of the light in his eyes. Going back to the darkness did not seem like something that such an illustrious man like him deserved.
Slowly, the chorus ended the singing and his vocal cords seemed to come to a halt under the command of the instruments. The sacrifice was complete, his fame had reached the stars and his name would have been on everyone’s lips until his death so as to feed his insatiable hunger for recognition and possessions. He would have returned home with a story to tell.
La delusione di Satyros – Aurora Carlaccini, Ambra Grandizio, Flavia Palo
Fin dalla fanciullezza Satyros era sempre stato in compagnia del suo migliore amico: l’aulos. Per questa ragione i suoi coetanei lo osservavano indispettiti ma tali sguardi non offendevano Satyros, anzi ne accrescevano enormemente l’ego. Il giovane musico, la cui vocalità era pari alle sue doti di strumentista, desiderava che quel talento di cui lui era tanto sicuro venisse riconosciuto e lodato da coloro che lo guardavano con indifferenza. La sua crescita fu segnata da una forte e determinata indole che lo spinse a ricercare quel livello di perfezione musicale di cui si voleva fare rappresentante. La stessa determinazione che spinse Teseo a resistere al Minotauro. Questo animo così irrequieto si trovava in antitesi con ciò che i suoi genitori avevano sempre cercato di insegnargli: volevano che si servisse della propria arte come strumento per far trasparire le proprie emozioni, come un panno di seta che, coi suoi filamenti, filtra i violenti raggi del sole attraverso delicati spiragli di luce.
L’ambizione che aveva sempre distinto Satyros dal resto dei suoi compagni lo spinse ad inseguire il sogno di diventare un agonista: ciò gli avrebbe permesso di dimostrare a sé stesso, più che a tutti gli altri, il proprio valore. Raggiunta la maggiore età, entrò a far parte della compagnia degli artisti di Dioniso, opportunità che gli avrebbe permesso di proseguire la sua promettente carriera.
Il battito si faceva sempre più fitto e una nebbia soffusa confondeva la sua mente, che fino a quel momento non aveva mai conosciuto il dubbio, il timore o la più pungente delle ansie. La data dell’agone pitico, una delle competizioni più importanti dell’Ellade, si faceva sempre più vicina e più scosso diveniva l’animo di Satyros. Nonostante qualche cenno di cedimento nel suo spirito, il ragazzo rimase fedele alla sua prima determinazione: scelse di esibirsi. Lo accendeva il sentimento di Afrodite di essere considerata la più splendida delle creature divine e terrene. Dopo sei estenuanti mesi di preparazione, Satyros giunse finalmente a Delfi in occasione dei giochi pitici. Tutti i Greci erano invitati ai piedi del monte Parnaso per assistere alle competizioni atletiche e musicali organizzate in onore del dio Apollo. Il capo del vincitore sarebbe stato cinto con una ghirlanda: un semplice, ma straordinario oggetto che Satyros desiderava con ardore.
Elio risplendeva nel cielo turchino, non vi era nuvola che ne oscurasse i caldi raggi, l’aria era frizzante e una dolce melodia del vento svegliò Satyros. Il tanto atteso giorno della competizione era finalmente giunto. Il giovane musico si recò a Delfi e, osservandosi intorno si rese conto di non possedere alcun rivale, non a causa della sua eccezionale bravura ma poiché Satyros era l’unico ad essersi presentato alla competizione. Infinite emozioni e pensieri percorsero rapidamente il giovane che, sentendosi deriso, sminuito, insultato, vomitò la sua rabbia e frustrazione nei confronti della corporazione che aveva permesso una tale mancanza di rispetto: “Avete scelto di svilirmi al cospetto degli dei, di umiliare i miei stessi cari genitori. Mai tale oltraggio verrà perdonato”. “Caro Satyros” rispondeva il sacerdote del santuario “non era nostro desiderio urtare l’alto talento da te custodito ed esercitato”. Nonostante le scuse del sacerdote, Satyros pretese di dimostrare ugualmente il suo talento. Il giovane era dominato dalla stessa determinazione che tolse la vita a Icaro e nemmeno la volontà diretta di un dio lo avrebbe distolto dal suo obiettivo: esibirsi a Delfi. Nonostante l’animo fosse stato ormai corrotto da profonda delusione, Satyros condivise la sua arte con i Greci accorsi ad assistere alla prova auletica dei Pythia. Un senso di amarezza lo assalì: si sentiva estremamente tradito ed era geloso degli agonisti delle altre categorie, come fosse stato colpito dall’invidia che aveva condotto Crono a divorare i propri figli.
Tutte le speranze conservate nel bagaglio di andata si erano trasformate in delusione e rabbia durante il viaggio di ritorno. Satyros trascorse l’intero tragitto ripetendo parole di lamento: un borbottio costante, di cui la natura circostante aveva appreso la melodia e ne ripeteva i cori. I suoi gemiti ripetuti come in preghiera erano giunti sino all’orecchio degli dei che rimasero colpiti più dalla sinfonia graffiante che dal soave canto elevato da Satyros nell’esibizione delfica.
Satyros e Kraton, artisti di Dioniso – Nicole Angelini e Lavinia Marri
Satyros era un suonatore di aulos e cetra molto noto a Samo, sua città natale. Era anche un ottimo cantore: la sua voce era ipnotica al punto tale da incantare chiunque la ascoltasse, un po’ come le sirene che attirarono Odisseo con il loro canto ingannevole. Famoso anche al di là dei monti e dei mari, decise che era giunto il momento di mettersi alla prova con l’agone di Delfi. Così iniziò il suo viaggio. Al porto di Samo chiese a un commerciante di gioielli il favore di portarlo con la sua imbarcazione fino alle sponde della Grecia. L’uomo riconobbe il grande artista e accettò, proponendogli un accordo: nel momento in cui fossero sbarcati sull’isola di Icaria avrebbe dovuto esibirsi suonando e cantando in modo che la folla, incuriosita dal suono divino dell’aulos, si sarebbe avvicinata anche alle sue merci stese sulla sabbia. Il tempo li aveva assistiti, i venti furono favorevoli e nell’arco di un paio di giorni arrivarono presso l’isola. Lì scesero dall’imbarcazione e, una volta terminato l’allestimento del telo per la vendita, Satyros iniziò a suonare. Piano piano una folla si radunò; per le vie, per le case si diffuse quel suono incantato e molti curiosi scesero al mare per capire di cosa si trattasse. Caso volle che tra il pubblico si trovasse Kraton di Calcedonia, uno dei più importanti suonatori di aulos nonché uno dei principali membri dell’associazione degli artisti ionici di Dioniso. Satyros lo riconobbe e lo stupore di quella vista raggiunse l’esaltazione quando Kraton si avvicinò a lui annunciandogli che, se avesse vinto la competizione delfica, sarebbe entrato a far parte dell’associazione di cui lui stesso era il membro più eminente. Si fermarono per la notte ospiti dell’artista e la mattina seguente ripartirono alla volta di Delfi con un altro carico di gioielli da vendere. Kraton si unì a loro. Dopo circa una settimana sbarcarono in Grecia e si diressero al santuario pitico, dove Satyros si esibì con successo, fu applaudito e acclamato da tutti. Vinse la competizione valorosamente, fu accolto nell’associazione degli artisti di Dioniso e il popolo di Delfi fece erigere una statua in suo onore. Il suo viaggio non finì qui perché presto ripartì insieme a Kraton verso Delo dove fu coperto di altri onori.
More stories to tell
Enfant prodige – Susanna Martinelli
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Sono solo un bambino, eppure si aspettano che mi comporti come un uomo. Gli adulti sono strani, non voglio diventare come loro. Non hanno nulla a che fare con gli eroi di cui racconto, loro sì che meritano il titolo di “uomini”. La mia storia preferita? Amo narrare le avventure di Odisseo. Un giorno sarò così, abile nel comandare come lo sono nel parlare. E avrò un esercito e solcherò i mari. Sarò un re onesto e generoso, avrò al mio fianco una regina fedele e ubbidiente, e tutte le donne saranno segretamente innamorate di me. Forse sto divagando. Tra pochi minuti dovrò salire sul palco ed esibirmi davanti alla sacra città di Delfi. Mi mancano la mamma e il mio fratellino. Loro sono rimasti nella Troade perché lui è ancora troppo piccolo per viaggiare. A me non piace allontanarmi da casa, ma papà dice che ho un talento e che devo sfruttarlo. Devo portare onore alla famiglia, ma io so che lo dice solo perché ha fame di oro e corone. Oggi sono stato bravo, non ho mai pianto, nonostante la mamma mi manchi davvero tanto. Vorrei indietro i suoi teneri abbracci e le parole dolci che mi rivolgeva quando cadevo e mi facevo male. Qui, quando cado, nessuno mi aiuta a rialzarmi. Nessuno mi dice niente. Neanche il papà.
Quindi mi alzo da solo, e da solo canto e parlo e racconto, perché è così che vivo. Perché loro non lo sanno, ma nella mia testa ci sono storie che nessuno conosce, che tengo solo per me. Storie che continuo a inventare e a raccontarmi ogni giorno che passa. Sono il mio segreto, sono ciò che mi tiene in vita. Loro non lo sanno, ma io non mi limito a raccontare, io creo. Sono un artigiano, un falegname. Abbatto abeti e larici e intaglio personaggi e intreccio amori, e uccido e do vita. Ma loro non lo sanno. E io continuo a raccontare di uomini banali e storie già sentite. Ho successo così, vinco con la banalità. Perché loro non capirebbero, nessuno potrebbe. E le mie storie moriranno con me.
Un poeta per gli Ateniesi – Ludovica Allevato
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Amphikles era un giovane talentuoso, dalle mille capacità, tanto acclamato nei luoghi dove viaggiava da trovarsi sulla bocca di tutti, come il racconto di un mito. Avendo partecipato a molti agoni, godeva di grande fama e onore. Non fu certo una sorpresa quando fu incaricato di comporre un prosodio che celebrasse gli Ateniesi e, ovviamente, Apollo. Erano infatti passati pochi anni dacché Atene aveva ripreso il controllo della meravigliosa Delo ed era dovere del migliore tra i poeti tesserne nuove lodi affinché l’isola sacra e i nuovi padroni si incontrassero ancora nel mito. Amphikles insegnava ai figli dei cittadini le arti della poesia e della musica, riempiendo la loro anima con nuove e tradizionali melodie, note che si incidevano nel cuore come lance dei guerrieri nella pelle dei nemici. Faceva loro ripetere il suo nuovo prosodio dal mattino alla sera, con l’obiettivo di rendere quel dolce canto la loro lingua quotidiana, tanto da poterlo recitare anche al contrario se avessero voluto. I giovani erano lo specchio della città, il prodotto del patrimonio fondamentale e della tradizione di un popolo. Per questo Amphikles si impegnava profondamente, affinché i giovani fossero perfettamente preparati per la processione, così da accrescere di rimando anche la sua fama.
Nei momenti che precedevano l’inizio della cerimonia, i fanciulli fremevano dall’agitazione. Avevano il compito di rappresentare due popoli ricongiunti e si sentivano pieni di dubbi. Forse erano troppo giovani e inesperti, il peso di quella esibizione era forse troppo grande da sopportare. Ma non c’era tempo di pensarci a lungo. L’aria di festa si sentiva per ogni strada e vicolo; il tragitto da percorrere era delimitato da uomini e donne accorsi per assistere alla scena. I ragazzi e le ragazze camminavano lenti, portando nelle mani doni da consegnare agli dei immortali, udendo le acclamazioni del pubblico. A guidarli c’era proprio la figura di Amphikles, che avanzava con la stessa sicurezza di Alcibiade quando aveva esposto il suo discorso in onore di Socrate. Le toghe dorate e lisce si muovevano in sintonia con i loro corpi che ondeggiavano a ritmo, le corde vocali si preparavano a iniziare il sacro canto per il quale si erano preparati intensamente. E la melodia usciva dalle bocche rosse dei fanciulli, estremamente emozionati e grati di essere stati scelti tra i migliori che potessero assolvere a quel compito. I giovani coreuti dimostravano la loro bravura, sopraffatti dalla veemenza dei sentimenti che erano ormai diventati guida delle loro menti. Sembrava che il suono fosse prodotto dalle profondità dell’anima, rimbombava nelle membra come un’eco all’interno di una caverna ed era quasi naturale sentirsi divini. Una volta fermi davanti all’altare, il canto si fece più ricco di artifici e la poesia sempre più sublime, quasi come fosse composta per Eros dalle eleganti ninfe soggiogate dal fascino dell’amore.
Non si stancavano mai, come se passeggiassero sulle nuvole dell’Olimpo, alleggeriti dalla potenza divina. Cantavano Atene per mezzo di Atena, che gli Ateniesi avevano scelto in virtù della promessa, attraverso un ramo d’ulivo, di saggezza, intelligenza e pace. Narravano le vicende della città, la sua potenza marittima nata dalla predilezione di Poseidone, che si contendeva con Pallade il titolo di protettore della città. Elogiavano Atene per essere il centro dell’umana cultura, culla dei più grandi filosofi, matematici e poeti di tutta la Grecia, dove, ovunque si volgesse lo sguardo, si potevano ancora sentire le domande di Socrate, i ragionamenti di Aristotele e le considerazioni atarassiche di Epicuro. Amphikles si ergeva sugli altri, guidando i coreuti come le onde del mare fanno con le navi mercantili nella speranza di attraccare in un porto sicuro. Elogiava Apollo, dio della musica, delle arti, delle scienze, dell’intelletto e della profezia, portatore del Sole, splendente stella che illumina la volta celeste. Cantavano il dio partorito da Leto a Delo, l’isola che non era ancorata al suolo perché la gelosa Era aveva proibito a qualsiasi terra di dare asilo alla Titanide al momento del parto.
Il dolce suono terminò. L’insegnante si sentì profondamente fiero del lavoro svolto dai suoi allievi e dall’impegno posto nell’esecuzione. Gli sguardi affascinati dei cittadini illuminavano i loro cuori, facendoli battere mille volte più velocemente, mentre la brezza li raffreddava dopo quell’onda bollente di emozioni. Sembrava che percepissero gli applausi provenienti dalle statue delle divinità, che quasi avevano perso il loro aspetto marmoreo e si erano animate udendo le soavi parole, compiaciute di essere celebrate con tanto zelo.
La cerimonia era finita, ma l’impresa dei rampolli e del maestro fu ricordata fino a sera. Un abbondante banchetto al Pritaneo premiò Amphikles, che gli Ateniesi si impegnavano ad elogiare per aver esaltato il loro popolo come fosse il proprio. L’artista fu ricordato per sempre come poeta e musico coronato, tanto illustre da meritare che il suo nome fosse inciso nel glorioso santuario di Artemide.
Tieni vicini i nemici – Aurora Carlaccini
https://poetivaganti.chs.harvard.edu/inscription/id-1512/
Dioskourides si presentava come un uomo pacato e delicato. Possedeva lo sguardo gentile che rassicura i fanciulli e le movenze di un saggio premuroso. Si dedicava alla poetica e trascorreva il tempo calcando con lo stilo sulle tavolette d’argilla i suoi virtuosismi poetici. Si trattava di una poesia spontanea, naturale, protetta dal divino. Non vi era composizione del benevolo poeta che non fosse conosciuta e amata da ogni abitante di Tarso. Dioskourides si occupava di trasmettere il proprio sapere e di condividere la propria vocazione: molti erano gli aspiranti poeti che desideravano di poterlo considerare la propria guida. Una mente, tra quelle dei molteplici allievi, catturò l’attenzione del poeta: si trattava di Myrinos, un giovane compositore che nell’aspetto sembrava essere stato forgiato dagli dei, ma dominato da un’indole colma di invidia. Le sue parole erano come lame su una superficie levigata: taglienti e profonde. E sebbene le Muse ispiratrici della poesia fossero benevole sembrava che i componimenti di Myrinos fossero dettati dalla stessa Eris. Discordia e impeto si propagavano dalle parole del giovane poeta il quale, in contrapposizione con il suo maestro, rifletteva e rielaborava con ossessionata premura ogni sua creazione. Il malessere di Myrinos aveva catturato l’attenzione di Dioskourides come una gazza si avvicina interessata all’oggetto che risplende. Per questo motivo, il maestro decise di inviare Myrinos presso la città di Cnosso, al fine di recitare i propri componimenti. Quest’ultimo accettò l’incarico, lieto e sorpreso di essere stato scelto.
Il viaggio alla volta di Cnosso fu l’occasione per fantasticare sulla gloria che avrebbe ricevuto dai suoi concittadini. Cnosso si presentava come imponente e austera: sembrava, appoggiando il capo alle mura della città, di poter ancora udire i veloci passi del Minotauro, nell’aria era ancora presente l’aura divina della regina, figlia di Elio. Myrinos percepì la sacralità del luogo e la sua mente divenne un vortice di pensieri. Si domandava se avrebbe potuto finalmente raggiungere il successo tanto desiderato.
Finì di recitare i componimenti del maestro e fu travolto da un’onda di applausi che per un attimo gli tolsero il respiro e l’udito. Myrinos dunque attese con ferma pazienza l’incisione che avrebbe impresso su pietra la sua gloria e che avrebbe formalizzato gli onori a lui destinati per l’impresa a cui si era prestato. Il decreto emesso dalla città di Cnosso conteneva una lunga lode nei confronti di Dioskourides e Myrinos si rese conto che il suo nome compariva come semplice portavoce e pupillo del maestro. Lo avevano privato interamente della sua personalità artistica ed era stato ridotto ad un ordinario esecutore. Si sentì come se quella poesia a cui aveva dedicato la vita fosse stata insultata. Fece ritorno a Tarso con animo pesante e la mano di Eris ancor più stretta attorno al polso di scrittore.
Becoming the pride of Halicarnassus: a career start full of adventure -Alessandro Zanni-
https://poetivaganti.chs.harvard.edu/inscription/ig-ii3-4-518-igii2-3073/
“It’s almost time” said the elder servant, while arranging the food on the tables. She turned towards the little boy, observing the sky out of the window, and continued “You might be one of the best poets in all Halicarnassus, but aren’t you a bit too relaxed?”
The little one paid her no mind. He continued looking at the sky, and just made a nod to affirm that he was ready whenever. He did not care that much anyways, why would he, after all, this was the umpteenth time he would sing in front of many people at a banquet.
He gazed across the new sky of Athens, and more specifically, to the Moon. Today the Moon was full and particularly beautiful. Yet, he did not look at it because of its beauty, on the contrary, he hated it as it recalled the same Moon of that damn night.
Phanostratos had always loved poetry, a passion which came from her mother. She had lost everything; home, family, and fame. Yet she still had her child, and even when they were so poor, she sang for him every day and night. After all, the voice was something she did not lose.
“One more!” asked the little boy every time she closed one of her pieces. Her mother could not be happier to see her child smile and thus continued to spoil his ears with such a sweet voice. She sang about myths, seas and the ancestors of that western land far from their magnificent but out-of-the-way town and little Phanostratos, who had never ventured out of his Halicarnassus, could figure different heroes and worlds in his mind. “When you will sing better than me, I’ll bring you across the sea” often promised her mother. And so, the little one trained with her at her side.
At the age of 7, he already mastered the art of poetry so well as to intimidate even the greatest poets of Halicarnassus.
Eager to see that vast azure cloth lying towards the horizon and fluttering in the wind, he trained day and night. Until one night of full Moon when, returning from kithara practice, found his mother lifeless. She had died of illness, and the six-years-old was now completely alone.
The heartbroken Phanostratos had even to steal to survive: he might have lost his major reason for living but had no intention of leaving this world yet, not until he had traversed the seas at least once. Apple by apple, loaf by loaf, he became quite known at the stalls of the town as a skilled thief. It is said he even used his sweet singing to lower the guard of the townspeople before stealing their money or food from the crates at the marketplace. Yet, even if he was known it was quite difficult to catch him. His speed and small stature allowed him to escape and slip away the pursuers.
He continued living his life like this, until a day when he was 12. A noble visiting his town overheard his verses from a corner out of the town walls. The noble immediately understood the skills of the little boy and recognizing the fibula oddly featuring the clothes of that poor commoner, ordered his guards to take him. Phanostratos tried to fight back but the guards were too strong for him. After questioning him about his identity and parents, he revealed to be the son of Herakleides but that he had no one anymore. Against his will, the boy was thus taken and brought to Athens where lived that rich man who claimed to be acquainted with his family and especially with the poetic compositions of his mother. That man did not care about him though, his only interest was to shine through him as a glory of Halicarnassus. He then was forced to sing every day and perform at banquets and other occasions so as to increase his popularity.
The boy lived his life day after day: in Athens he could learn firsthand about literature and music of the civilized Greeks but soon he had no interest in composing and singing anymore. He was not particularly mistreated by anyone in the family but no one really cared about him, his beloved with whom they said to have been friends or his poetry. He had become extremely popular among the Athenian aristocracy after six years being used by that vainglorious Halicarnassean who used him to boast about fatherland showing the young poet around at his banquets.
So today he would recite his compositions at another banquet as the star performer of the event. Still staring at the Moon, he wondered why was he bothering to keep living. Afterall, even though now he might be in a way better situation than before, he still did not feel free nor could he fulfill her wish of traveling throughout far-away lands and seas. His words astounded many, yet he knew that hardly they could reach anyone. No one truly understood the pain behind his words; pain of loss, pain of loneliness. Even the art he cherished so much was now empty for him and he did not care putting anymore his real self in his singing.
“It’s time, you should prepare yourself” the voice coming from the elder servant woke him up from that daze. He could see people entering the hall. He thus went and waited until the greeting ritual was over. Once he was signaled to enter, he got on the stage and cleared his voice.
Everyone in the audience focused on the young artist and admired his poetry. That was a view he had seen countless times… If it was not for that one guy, Xenokles of Sphettos, who looked totally indifferent. That bothered him, he felt insulted by such disregard. Afterall he was really proud of his talent in composition, in music, and his voice, trained by his mother, really made him one of the best poets ever. Thus, when it was time for him to begin, without even realizing it, he recited and sang with confidence, the best he could.
The indifference in that guy’s face quickly turned into surprise and Phanostratos felt pleased. But he might have sung really well as Xenokles stood up in a heartbeat and applauding walked towards him in an intimidating pace. Then, taking his hand: “Come and work with me, join my team at the dramatic contest!”
Everybody was extremely surprised witnessing that scene and Phanostratos was not sure how to react: he had never seen someone being so captivated by his art. The Halicarnassean jumped in the situation, clearly seeing his personal profit there. But after all that could be his one occasion in life to present to an audience come from all Greece the sweet poetry he had learnt from her mother and his brand-new compositions. He would have become the pride of Halicarnassus but above all of his own mother.